07/05/2022 - Joe Biden insiste: «Dovete rinunciare a petrolio e metano russi». L’Ue cederà, a costo di una recessionemai vista, e l’Italia avrà bisogno di ulteriori 40 miliardi l’anno che non ha. Ed ecco l’ideona: un prelievo di scopo (cioè eterno) a chi percepisce più di 100.000 euro lordi.
Zelensky e Biden insistono: l’Europa deve chiudere il rubinetto del gas con cui Putin alimenta la guerra in Ucraina. E ovviamente l’Unione si prepara a uniformarsi al diktat, anche se questo costerà una recessione mai vista. Già la locomotiva tedesca è in retromarcia e il vagone italiano che vi è agganciato pure (la Germania a febbraio ha avuto un calo della produzione industriale del 3,9 per cento e a marzo del 3,5), ma senza il metano e il petrolio russo andrà anche peggio. Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, al Corriere della Sera dice che serve un’Unione energetica, ossia condividere le politiche di acquisto di idrocarburi. L’idea è vecchia come il cucco e in passato non ha funzionato granché, se non per indebolire ancora di più l’Europa. Era il 1951 quando con il Trattato di Parigi fu fondata la Ceca, ossia la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Concepita per mettere in comune queste materie prime, in realtà di comune ebbe poco, perché subito dopo aver gettato le basi di un mercato che avrebbe dovuto essere uguale per tutti, presto furono firmati accordi collaterali che consentivano privilegi e deroghe ai diversi Stati, assecondando gli interessi particolari. Non andò meglio con Euratom, altra organizzazione sovranazionale che avrebbe dovuto coordinare i programmi dei Paesi europei relativi all’energia nucleare. Come è noto, nonostante questa istituzione sia stata fondata nel 1957, ognuno ha fatto da sé e una vera visione energetica legata all’atomo in Europa non c’è mai stata, prova ne sia che l’Italia, dopo Chernobyl, ha chiuso le proprie centrali, la Francia le ha aumentate e la Germania le ha parzialmente dismesse in seguito a Fukushima. Insomma, pensare che adesso, di fronte all’invasione dell’Ucraina e alla necessità di sganciarsi dalla dipendenza del gas russo, Francia, Germania, Italia e altri 24 Paesi troveranno un accordo per avere riserve comuni, pare una pia illusione. Se non ci sono riusciti in 70 anni e non hanno mai fatto un passo avanti per condividere investimenti, debiti, eserciti, politiche fiscali, perché ora dovrebbero essere in grado di stipulare contratti che valgano per tutti? Nonostante l’ottimismo della presidente del Parlamento europeo, la risposta non c’è.
Ma all’idea di un’Unione energetica (quando non esiste nemmeno quella politica e la prova è che anche di fronte alla guerra la Ue procede in ordine sparso) si somma un’altra straordinaria pensata, ovvero quella di un fondo che consenta alle economie europee di spezzare la loro dipendenza da gas e petrolio russi. In pratica, si tratterebbe di mettere a disposizione i soldi avanzati dal Recovery fund, ovvero quei miliardi che gli Stati hanno scelto di non utilizzare nonostante, come ci raccontò Giuseppe Conte, fossero una meravigliosa occasione. Se qualcuno ha preferito rinunciare alla propria parte, la spiegazione è chiara: non essendo a fondo perduto, quei prestiti non solo imponevano a chi ne facesse uso degli obblighi, ma prima o poi avrebbero dovuto essere restituiti. Dunque, si trattava di indebitarsi di più, cosa che l’Italia ha puntualmente fatto e che altri invece hanno preferito evitare. Oggi, con l’avanzo di quei soldi si vorrebbe finanziare il distacco da Mosca, caricando sulle spalle dei Paesi che vi accederanno un impegno finanziario per le future generazioni. Il Corriere ieri ha titolato dicendo che allo scopo sarebbero pronti 200 miliardi, ma a leggere l’articolo si capisce che in realtà di quei fondi ne potrebbe rimanere la metà. Ma a che cosa servirebbero quei soldi? «A far arrivare il gas o il petrolio ai Paesi d’Europa centro orientale privi di sbocchi al mare». Quindi, campa cavallo. E poi non sarebbe risolto neppure il problema di dove reperire il gas che non si intende più importare dalla Russia, il quale per la vicinanza sarebbe, come è ovvio, il più conveniente. Senza contare che le condizioni dei prestiti, per quanto possano essere definite «convenienti», restano comunque onerose. Detto in poche parole, quei soldi non sono gratis. E proprio a questo proposito il professore Paolo Onofri, presidente di Prometeia, ha calcolato quanto costerebbe al nostro Paese lo stop degli approvvigionamenti di metano dalla Russia. Il blocco provocherebbe una caduta del Pil, che in concreto richiederebbe una manovra di sostegno di 40 miliardi nel 2022 e di altri 40 l’anno prossimo. E dove si trovano questi soldi? Se presi a debito, hanno spiegato Milena Gabanelli e Rita Querzé dopo aver scandagliato il problema, farebbero risalire il rapporto debito-Pil al 149 per cento quest’anno e al 145 per cento nel 2023, con gli effetti che tutti possono immaginare sullo spread, che già nei giorni scorsi svettava attorno ai 200 punti. E allora? Oltre alla soluzione di recuperare i soldi dell’evasione (quando un governo non sa come far quadrare i conti si appella sempre a questo miracolo, senza per altro riuscirvi mai), l’altra idea che si fa largo è la tassa di scopo, ovvero una tassa sul mezzo milione di contribuenti che ha un reddito lordo superiore ai 100.000 euro. In pratica, il costo dell’apporto italiano alla guerra in Ucraina lo dovrebbero pagare loro. Dovrebbe essere una tassa limitata nel tempo, suggerisce la Gabanelli, aggiungendo però che tutte le tasse di scopo, dal Vajont in poi, si sono trasformate in tasse eterne. «Ma se vogliamo essere solidali nei fatti, la strada va considerata», scrive l’ex conduttrice di Report. Quindi? Preparate i portafogli: il conflitto per interposta nazione fra Russia e America alla fine lo pagheremo noi.
di Maurizio Belpietro – La Verità
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